The Mad Monk

Voto dell'autore: 3/5

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themadmonkLa regia di Johnnie To (Exiled, Election), le coreografie marziali di Ching Siu-tung (Storia di Fantasmi Cinesi), la presenza di Stephen Chow Sing-chi (Kung Fu Hustle, Shaolin Soccer) e un fiume di grandi attori che va da Anita Mui (Rouge, A Better Tomorrow III) alla solita spalla comica Ng Man tat (Shaolin Soccer), Anthony Wong (Exiled, Infernal Affairs), Maggie Cheung (Heroic Trio, Irma Vep), Kirk Wong e Chan Wai man. E poi un budget evidentemente dignitoso e tante ambizioni tendono alla realizzazione di uno dei più complessi film interpretati dal comico, probabilmente le prove generali del successivo dittico di A Chinese Odyssey. "Complesso", prevalentemente a causa del suo essere profondamente radicato in cultura e folklore (e comicità) locale e quindi di difficile approccio per uno spettatore a digiuno sia dell’ironia di Chow che del cinema di Hong Kong in generale.
Le ambizioni tendono a produrre uno dei lavori più complessi del “king of comedy” ma al contempo la regia a tratti aritmica, fusa alla comicità cantonese di classica finezza sotto il livello di guardia, e le sferzate corali (il personaggio di Ng Man Tat evapora dalla scena a metà film) tolgono interesse e empatia con lo spettatore.
Si ride poco e ci si intrattiene in maniera discontinua nonostante un paio di scontri ottimamente –e come al solito per Ching Siu-tung, verrebbe da dire- coreografati e delle trovate di torrido melodramma che si iniettano nel tessuto narrativo senza preavviso alcuno (come la durissima sequenza in cui Maggie Cheung si sfigura il suo viso algido con uno spillone).

Stephen Chow è una divinità che promette ad una Dea (Anita Mui) che scendendo sulla terra riuscirà  in tre giorni a rendere felici e cambiare la vita (in meglio) ad una prostituta (Maggie Cheung), un mendicante (Anthony Wong) e un guerriero violento (Kirk Wong). Su questo bignami di soggetto si intersecano decine di sottotrame confuse, frammentarie, di alterna riuscita.

Forse l’elemento di maggiore interesse è alla fine proprio l’estrema alternanza di convivenza di stili, la libertà di contrasto tra leggerezza e oscurità dei contenuti, routine per quegli anni in quel di Hong Kong, ma scelta che vale la pena, di tanto in tanto, ricordare e interiorizzare per chi magari ancora non si è accorto di che tesoro di libertà inusitate si è celato nella Hong Kong degli anni ’80 e ’90.
Tra becera ironia, melodramma, e violenza anche sorprendentemente dura ci sarà spazio per una sorta di sequenza “tokusatsu” in cui una divinità degli inferi gigante abbatte un villaggio per cacciare il personaggio interpretato da Chow.
A confermare poi la teoria che suggerisce come in ogni film dell’attore siano contenuti elementi che sarebbero poi tornati nel suo capolavoro Kung Fu Hustle è la sequenza in cui un verme si tramuta in farfalla, vero simbolo del film del 2004.