The Sadness

Voto dell'autore: 4/5

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Le premesse di The Sadness potrebbero apparire le più banali. Decine di registi si sono tuffati a pesce nel girare film durante, dopo, sulla pandemia del Covid-19, in maniera più o meno sentita, talvolta furbesca, spesso annoiata. E sembrerebbe fin troppo semplicistico abbinarla al “genere” degli zombie e vincolarla come fonte primaria dell’orrore.

Inspiegabilmente, tra complottismo accennato e una buona affabulazione, il regista Rob Jabbaz, Canadese di stanza a Taiwan, riesce nell’impresa.

E’ sempre più difficile dire qualcosa di nuovo in campo horror. Un tempo in occidente l’horror era metafora politica, oggi spesso è lezioncina retorica liberal. Ed è sempre più difficile muoversi in ambienti innovativi nell’abusatissimo genere popolato di zombie. A volte qualcosa di fresco appare, negli ultimi anni qualche guizzo in Corea del Sud (Train to Busan, Peninsula, #Alive, Kingdom…).

Ed ora si fa notare Taiwan che nel genere horror di tanto in tanto se ne esce con qualche oggetto di una certa rilevanza (pensiamo al Detention del 2021).

The Sadness, acclamato praticamente ovunque, non inventa nulla ma quello che offre lo fa bene e con una freschezza refrigerante. Certo, merito ovviamente anche del contesto geografico meno abusato della media a cui uno spettatore è abituato.

Inizia silente, cacofonico, leggero, contemplativo, ambiguo. Lentamente e sorprendentemente scivola nella macelleria gore a livelli così efficaci come non si vedeva da tempo. 

La prima parte è ovviamente la migliore; il regista prende delle situazioni a blocchi e ne costruisce una struttura personalizzata quasi da operetta a sé stante. E’ il caso del ristorantino dove l’orrore si palesa al protagonista, così come la sequenza interamente gestita in un vagone della metro in cui il sangue sgorga ai livelli del primo Peter Jackson.

Gli zombie non sono zombie, ma esseri umani colpiti da una pandemia che annienta i loro freni inibitori e permette loro di affrancarsi dai vincoli culturali imposti dalla società, lasciandosi andare ai peggiori istinti, principalmente sessuali e sanguinari. Sono quindi esseri senzienti, che parlano, ragionano, corrono e che muoiono non solo tramite colpi alla testa. Esseri tristi ed emarginati che cercano e trovano un riscatto, che conquistano il coraggio sopito, che si sentono protetti da una bestiale immunità e si riprendono ciò che reputano loro: ci sono gli studenti che martorizzano i professori, i generali che uccidono i politicanti, i salaryman maturi che aggrediscono sessualmente le giovani attraenti, i repressi che si lanciano in orge di sangue. Nessuna pietà, nessuna remora, nessun valore, nessun rispetto. La solidarietà e la coesione sociale devastati dall’individualismo capitalista spietato senza limiti e sensi di colpa, dove il fine giustifica i mezzi e dove il singolo prevalica l’altro.

E’ un po’ come se Pirandello fosse uscito a cena con il regista di The Raid e avessero pensato ad uno splatter. Il risultato è un film che ha una forte personalità che “nobilizza” gli eccessi gore con piccoli indizi che più volte evocano A Serbian Film. Purtroppo il carattere di Rob Jabbaz non è così accentuato tale da prefigurare ancora un autore riconoscibile. Ma sicuramente il film ha un’anima e uno spirito pregni di coraggio, energia e talento.

Ne esce un film eccessivo che esalta lo splatter di fine ’80, dotato di una certa energia ed entusiasmo; un’horror sicuramente radicale che lascia un segno e un titolo istantaneo da manuale sul cinema degli zombie. 

Un po’ politico, un po’ caciarone, un po’ d’autore. Solo il tempo gli troverà un adeguato posizionamento critico.