Warriors: The Black Panther

Voto dell'autore: 4/5
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BlackPantherWarriorsThe Black Panthers Warriors è l’ennesimo esperimento geniale della In-Gear Film Production Co., casa di produzione fondata da Alan Tang, una delle meno studiate ma sicuramente delle più anomale e interessanti del ventennio d’oro di Hong Kong. Responsabile di film arditi, geniali, inventivi e folli del calibro di Return Engagement, Gun N’ Rose, Vampire Buster e al contempo degli esordi di Wong Kar-wai (Days of Being Wild), utilizzando collaboratori fedeli (tra cui lo stesso produttore come attore) ha partorito un pugno di titoli tutti, in un modo o nell’altro, degni di nota, specie per la loro assurda e assoluta libertà stilistica prossima all’avanguardia. E questo film è un alieno, totalmente slegato da ogni senso e ogni logica “reale”, libero dalle leggi della fisica, dell’anatomia, della dinamica, delle regole grammaticali cinematografiche, della sceneggiatura. Ogni elemento è trattato in una modalità unica e inedita, partorendo un prodotto libero, speciale, inaspettato ad ogni svolta.
La storia praticamente non c’è, gli attori recitano non solo in modalità sopra le righe ma seguendo delle reazioni agli stimoli prive di una qualsivoglia logica contingente; Tony Leung Ka Fai, quando una ragazza parla in mandarino inizia a piroettare immotivatamente percorrendo chilometri e ritrovandosi dall’altro capo della città mentre Dicky Cheung è un infantile autistico (succhia il latte dai capezzoli di Simon Yam!) che una volta infilato il ciuccio in bocca diviene eroe in ogni abilità, da quelle marziali a quelle informatiche (e non ci si aspetti nessuna spiegazione in merito).

Yuen Wah assume Melvin Wong che assume Alan Tang che assume una squadra di casi umani denominata Black Panther Warriors (Simon Yam, Carrie Ng, Brigitte Lin, Tony Leung Ka Fai, Dicky Cheung, Jennifer Chen Ming Chen) per recuperare un oggetto nella stazione della polizia. Il resto sono dialoghi prossimi all’idiozia pura alla cantonese e vulcaniche e gratuite sequenze action senza limiti, fino ad uno scontro finale tutti contro Melvin Wong e Alan Tang contro Yuen Wah.

Clarence Ford (Naked Killer, Cheap Killers), il regista, ha affermato di curare da solo sia le coreografie marziali che il montaggio dei propri film; il risultato è una follia frenetica e estenuante, fatta di continue inquadratura sbilenche, reiterazioni delle immagini, salti della continuità spaziale continui, montaggio epilettico, deframmentazione dei punti macchina, epilessia visiva, con un metodo in cui non è tanto la coreografia in sé a costruire lo scontro bensì l’idea di regia e soprattutto il montaggio che la sottende, il tutto cullato da sei direttori della fotografia accreditati che si danno da fare per alternare colori caldissimi a follie al neon, controluce fumosi ed estetica ultrapop.
Simon Yam utilizza le carte da gioco che genera dalle mani come arma, producendo vortici, interi muri esplosivi e raffiche letali. Tony Leung fa fuoriuscire in volo dal suo giubbotto decine di pistole automatiche che fa sparare lanciando sui loro grilletti contemporaneamente un sigaro (!) ed è capace grazie alla propria velocità di sparare e far rientrare al volo i proiettili nel proprio caricatore. E poi uno strip tease con le vesti strappate a colpi di proiettile, Alan Tang che vola con la moto combattendo contro un Melvin Wong (volante anche lui e dotato di strane lame circolari che emettono scintilline) fin sopra i segnali stradali di un'autostrada.
Il film è tutto così. Sicuramente a molti potrà fare male, e non è facile interpretare e accedere ad un’opera del genere che tutto sommato resta un’emerita scemenza. Ma quanto furore, e quanta inventiva e libertà. Elementi ormai (quasi) persi, da stringere forte per non lasciarli fuggire e da non dimenticare. In un tempo di cinema ormai quasi interamente globalizzato l’unica cosa che ci resta è la memoria.