Kumakiri Kazuyoshi [2]


Regista.

 

Kumakiri Kazuyoshi torna alla Nippon Connection 2015 dopo 6 anni dalla presentazione di Non-ko nel 2009.
Sono stati anni impegnativi durante i quali ha diretto Sketches of Kaitan City (2010), Blazing Famiglia (2013), The End of Summer (2013) e My Man (2014) che presenta al Festival quest’anno.

 
Asian Feast: Mentre gira film con celebri star come Asano Tadanobu e Nikaidō Fumi, che appaiono in My Man, si dedica anche a progetti sperimentali come Cinema Impact [1]. Lei si sente più incline ai film di successo o a opere indipendenti?

Kumakiri Kazuzoshi: Mi viene difficile decidere una categoria tra le due. Iniziai la mia carriera come regista indipendente e, nonostante mi piaccia girare opere mainstream, di tanto in tanto voglio rilassarmi con progetti come Cinema Impact.
In My Man sono stato libero di creare come volevo, ma a volte mi è successo di avere degli obblighi contrattuali, di dover accettare un certo cast o di non essere del tutto libero durante il montaggio e, in questi casi, progetti come Cinema Impact mi permettono di lasciarmi andare e ridurre lo stress anche se non offrono nessun guadagno.

AF: Sia in My Man sia in Non-ko, la protagonista femminile è sempre una donna molto particolare. Da dove trae ispirazione per le sue figure femminili?

KK: Non credo che le mie figure femminili siano particolari, ma è vero che mi piacciono donne forti e, talvolta, anche crudeli. Forse a causa delle mie due sorelle maggiori, sono cresciuto vedendo anche gli aspetti negativi nelle donne e finisco per ritrarle più forti o più egoiste della norma.

AF: Alcune sue opere come Kichiku dai enkai o Freesia furono caratterizzate da particolare violenza. In My Man, possiamo dire che la violenza è di natura morale: può parlarci di questo suo cambiamento?

KK: Uhm… mi avvicinai al cinema perché mi si presentò come un mondo che permette di creare opere che non si possono vedere in televisione. Ho come l’impressione che la società generi ispirazioni di continuo e, quando nel buio della sala cinematografica vedevo film nati da questo tipo di ispirazione, avvertivo un senso di liberazione… ero finalmente consapevole di non essere l’unico ad accorgersi di queste ispirazioni. Così nacque la mia prima opera: Kichiku dai enkai.
Riguardo alla violenza morale di cui parla in My Man, credo che possano esistere davvero casi di incesto nella nostra società, e sono taboo proprio perché plausibili.
Avevo già leggermente toccato l’argomento in opere passate, ma ho sempre voluto affrontare questo tema in maniera nuova.
Di recente temi rischiosi come questi sono spesso evitati dal cinema giapponese, ma in passato registi coraggiosi come Wakamatsu Kōji o Oshima Nagisa li affrontarono senza mezzi termini.
Quando mi accorsi che in letteratura questi temi ostici stavano diventando sempre più prominenti, decisi che il cinema non dovesse rimanesse indietro e li affrontai una volta per tutte.

AF: Nella nostra intervista precedente, lei ammise che Non-ko e Sora no Ana sono stati i film in cui è riuscito a esprimersi più naturalmente, senza forzature. Sotto questo aspetto, dove collocherebbe My Man?

KK: In effetti, Sora no Ana e Non-ko li sentii così vicini, quasi fossero parte di me. Con My Man non ho forzato particolarmente la mano, ma è stato condizionato maggiormente dalla voglia di una sfida che avevo rimandato a lungo.

AF: Poco fa, ha menzionato velocemente cosa l’ha spinto a girare My Man, ma posso chiederle di darci qualche dettaglio in più?

KK: Come detto poco fa, mentre la letteratura affronta sempre di più argomenti controversi, nel cinema, e in particolar modo quello giapponese, vengono spessi evitati e ho trovato la cosa frustrante. Quando scoprii l’opera originale, avvertii il bisogno e la forte motivazione di rappresentare questo tema. Inoltre, l’opera è ambientata in Hokkaido, dove sono nato e i riferimenti storici al terremoto degli anni ’90 mi hanno portato a pensare che non fosse un caso che quest’opera fosse finita nelle mie mani.

AF: La bambina all’inizio del film è molto brava nonostante la tenera età. Come è riuscito a raggiungere un risultato del genere?

KK: È stato il primo film per quella bambina. Alle audizioni cercavamo una bambina che assomigliasse a ō Fumi, ma senza molto successo. Nell’ultimo gruppo di circa 100 candidate c’era quella bambina. Non aveva seguito corsi di recitazione, ma le chiedemmo di leggere la parte comunque. Al contrario di altre candidate che recitarono la parte come gli era stato insegnato, lei recitò con le proprie parole ed emozioni e questo mi colpì molto. Durante le riprese, ho dovuto solamente spiegarle le scene e il resto fu tutta farina del suo sacco.

AF: My Man è stato presentato all’estero e ha vinto anche un premio in Russia. Come pensa che siano accolte le sue opere fuori dal Giappone?

KK: Il tema di questo film è molto probabilmente taboo ovunque. In particolar modo, ricordo che durante la conferenza stampa per il Grand Prix un giornalista mi ha persino chiesto in che ambiente fossi cresciuto per realizzare un film del genere.

AF: La nostra impressione è che lei non voglia parlare di morale, ma che voglia raccontare la storia dei due protagonisti.

KK: Il mio obiettivo era di ritrarre il rapporto tra le persone. Ovviamente il film tocca argomenti di morale, ma quando giro un film, cerco sempre di riprendere le persone nella maniera più realistica possibile e ho voluto affrontare la sfida di un argomento così ostico. Per me è molto importante discutere con gli attori durante le riprese per non dare una percezione falsata della realtà.

AF: La prima metà del film si svolge in Hokkaido, mentre l’ultima parte è ambientata a Tokyo. Con lo spostarti dell’azione nella capitale, la vita dei personaggi diventa sempre più miserabile. Secondo lei la vita in città è sinonimo di disperazione o è stato solo un artificio narrativo?

KK: La sceneggiatura prevedeva il cambio di ambientazione, ma può darsi che inconsciamente ci abbia messo qualcosa di personale. Anche io mi trasferii a Tokyo dall’Hokkaido e, in effetti, la fotografia e le immagini diventano sempre più crude e scure, mano a mano che la storia prosegue e… in effetti, no, non credo che sia un caso.

 

 [1] Progetto di cinema indipendente ideato da Yamamoto Masashi. Ai partecipanti venne richiesto di creare un’opera cinematografica con budget e tempi limitati.