Wild 7

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Wild 7Accade sempre più spesso che quando si metta mano alla riduzione di manga leggendari si fallisca su vari fronti. Nel caso di Wild 7 si sta parlando di uno di quei prodotti nati in pieno fermento intellettuale, quel 1969 che fu uno degli anni chiave della controcultura mondiale, e per il quale immaginarne un film  in un 2011 di crisi e contestazione di piazza sembrava prospettiva più che allettante. Serializzato per Shonengahosha, il manga fortemente politicizzato di Mochizuki Michiya ebbe diversi seguiti cartacei curati dallo stesso autore diventando col tempo la sua creatura più nota e di successo. A questo poi si aggiungano una serie televisiva di 25 episodi nei primi anni ‘70, un OAV ed un anime negli anni 90 per arrivare ad un recente manga curato da Hashimoto Kan uscito a ridosso di questo film. Di tutto questo nulla è arrivato in Italia dove l’unica traccia dell’opera di Mochizuki è un anime tratto da un altro suo manga automobilistico però ben noto ed amato nel nostro paese come Falco Superbolide.

Essendo quindi il manga inedito in occidente, se non per un breve ma incompleto tentativo di edizione americana, non ci è dato sapere quanta fedeltà vi sia al materiale originario. Il vero problema è piuttosto che quando le produzioni diventano pachidermiche finiscono per stritolare anche il miglior soggetto, sebbene si avverta che la storia dei sette galeotti assoldati dal governo come squadra ombra per eliminare i delinquenti abbia una potenza politica difficilmente neutralizzabile anche dal più bravo degli sceneggiatori oscurantisti. Data anche per scontata una limatura degli spigoli più acuminati della storia, il vero problema di queste riduzioni moderne giapponese è l’essere affidate a registi non adatti. Ad oggi solo Miike Takashi ha saputo dare letture convincenti quando si è cimentato negli stessi territori (Yattaman, Crows Zero e lo stesso Ichi the Killer), mentre se si guarda per esempio alla riduzione di un manga fortemente politico e polemico come Kaiji affidato al classico mestierante televisivo da dorama si vedono tutti i limiti di registi che, seppure mossi da buoni propositi, non hanno guizzi in termini di tecnica ed inventiva per poter graffiare.

Non vale nemmeno fare il discorso che questi possano mai essere bloccati dall’industria, visto che è la stessa industria a permettersi il lusso di produrre film del genere senza nemmeno porsi il problema di fare qualcosa che sia idealmente antisistema. Come sempre nella storia della società capitalistica moderna è il sistema stesso che finisce per vendere la controcultura come prodotto commerciale, ma al di là di questo discorso che stende un velo di malinconia su quegli anni ’70, ci resta comunque tra le mani poca cosa a livello artistico. Con la Warner Bros che distribuisce nei teatri i produttori mettono nelle mani di Hasumi Eiichiro tanti denari, attori dall’alto cachet come Eita (Azumi, 9 Souls, Memories of Matsuko, Dororo), Shiina Kippei (Shinjuku Triad Society, The Black Angel, Sakuran) o la bellissima Fukada Kyoko (Dolls, Kamikaze Girls, Yattaman) e un imponente apparato di produzione. Si sprecano le gru e i carrelli, tanto che sembra divertirsi il regista, ma quanto tira fuori è assolutamente privo di mordente. Persino la scena balistica all’interno di un centro commerciale con tanto di scale mobili, citazione magari involontaria di The Mission, uno dei capolavori di Johnnie To, non fa altro che far capire lo scarto tra un maestro del cinema come il regista cinese e un onesto mestierante come Hasumi. Si finisce piuttosto dalle parti di Michael Bay, soprattutto quando nel finale incominciano a concatenarsi mini tragedie e dissidi personali dei sette protagonisti e dei vari comprimari. Sono i classici eventi a coinvolgimento zero caratteristici anche del regista americano, troppo occupato a piazzare decine di camere per poi far frullare il tutto in sede di montaggio, ma in un’ottica un po’ meno tronfia e con un numero sensibilmente inferiore di esplosioni, se questo possa mai servire da consolazione.

Questa struttura pachidermica, difficile da gestire per qualsiasi regista, ha quindi l’effetto opposto di quanto sperato anche questa volta. Lascia l’amaro in bocca tanta profusione di mezzi che si risolve in un nulla di fatto se non per qualche fugace attimo sparso qua e là durante le quasi due ore di film. Lascia l’amaro in bocca, perché mai ci si sarebbe sognati di veder tradotte certe storie in immagini e con tale dispendio di energie un tempo. Mai. Eppure quel che rimane è la sensazione che a volte possa essere meglio rimanessero imprigionati su carta questi sogni, che vederli anestetizzati e resi innocui per le masse è davvero una gran pena.

Galleria di cover del manga illustrate da Mochizuki.