Graveyard of Honour

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Graveyard of HonourL’ascesa e il declino di Rikuo, yakuza senza scrupoli, cinico e spietato, dal suo esordio nel mondo della malavita organizzata – quando sventa un agguato al boss del clan Sawada guadagnandosi una posizione all’interno del gruppo – fino alla sua disperata (auto)distruzione finale.

Nel pacchetto di yakuza-movie girati tra il 2000 e il 2003 sceneggiati da Takechi Shigenori, Miike si cimenta anche con il riadattamento del romanzo Jinji No Hakaba/Graveyard of Honour di Fujita Goro, da cui già Fukasaku Kinji nel 1975 ne ha tratto una eccellente versione per il grande schermo. Rispetto a quest’ultimo, nell’adattamento di Miike il tutto è traslato temporalmente diversi anni dopo, e precisamente negli ultimi due decenni del secolo scorso, durante l’esplosione giapponese della cosiddetta “bolla economica”. Il critico Tom Mes fa giustamente notare il parallelismo tra la vicenda di Rikuo Ishimatsu (interpretato magistralmente da Kishitani Goro) e quella del Giappone, che dopo un periodo di rapida ascesa si trova di fronte ad una ancor più rapida e profonda caduta.

A conferma di ciò, si noti come durante il film Miike inserisca alcuni riferimenti che non lasciano spazio a dubbi riguardo alle sue intenzioni, ovvero di voler ancorare la vicenda di Rikuo con quella del Giappone: inserti riportanti le prime pagine dei quotidiani, riprese di scene di strada, inquadrature di personaggi politici, simboli e bandiere nipponiche sono tutti elementi più o meno ricorrenti. Oltretutto, la vicenda dello yakuza ribelle Rikuo si presta comunque alla perfezione per la rappresentazione delle tematiche miikiane, a partire dalla figura limpida e cristallina dell’outcast, una condizione che, sfiorando il parossismo, in questo caso è intenzionale da parte del protagonista, che fa di tutto per autoghettizzarsi. La sua incapacità di comunicare con le persone, se non attraverso gesti estremi, e il suo totale rifiuto di qualsiasi tipo di autorità – l’unico rapporto gerarchico che lui riconosce è quello con se stesso – fanno si che progressivamente attorno a lui non rimanga altro che terra bruciata: e anche le persone che vogliono aiutarlo fino in fondo, come il fratello di sangue Imamura, conosciuto in carcere, arriveranno a capitolare davanti alla carica nichilista di Rikuo. L’unica persona che rimane fino all’ultimo al fianco del gangster è Chieko, sua compagna ed ex cameriera, che per amore segue fino in fondo Rikuo nel suo rapido declino. Del resto, anche Rikuo prova per la ragazza un sentimento che – in maniera particolare – può essere definito amore, anche se trasfigurato in un rapporto eccessivo, istintivo, rabbioso: emblematica è la scena in cui i due si conoscono, dove Rikuo, all’uscita del night dove lavora Chieko, chiede – non direttamente ma tramite uno dei suoi subalterni - che la stessa lo accompagni al karaoke. La ragazza si trova così obbligata a seguire il gangster in una stanza dove quest’ultimo, ubriaco, si mette a sbraitare al microfono, e dopo pochi secondi assale la ragazza violentandola senza spiccicare una parola. E all’uscita della stanza si pulisce la mano lorda di sangue (che suggerisce il fatto che la ragazza fosse illibata) in una scena carica di significato: l’unico modo con cui Rikuo riesce a comunicare è la violenza, e dove lui passa non rimangono che tracce di sangue. Nonostante i suoi metodi brutali che potrebbero far pensare ad un rapporto dominato dall’istinto (ed in parte è così), è comunque facile comprendere come Rikuo sia veramente innamorato della ragazza, tale da considerarla sua moglie, quando durante la visita in carcere Chieko gli chiede che cosa lei rappresenti per lui; nel momento in cui Rikuo esce di prigione e si ritrova Chieko in disparte ad aspettarlo, un barlume di emozione trapela timidamente sul suo viso di pietra, e per non rischiare di lasciarsi dominare dall’istinto brutale, prima di rincasare questi va a sfogare le proprie pulsioni violente con una entreneuse, per poi arrivare (ovviamente ubriaco) dalla moglie e amarla con inaudita dolcezza.
Chieko diventa l’unico motivo di vita per Rikuo, il cui unico desiderio è stare con lei e dimenticare tutto il resto (e qui subentra il tema miikiano della ricerca della felicità), entrambi naufraghi nel mare dell’oblio grazie agli effetti dell’eroina che cancella tutti i mali. E proprio la droga sarà la causa della morte della ragazza, e della (auto)distruzione di Rikuo che, disperato, si vede scomparire il suo unico motivo di vita e quindi non ha più niente da perdere. E’ anche una struggente storia d’amore, Graveyard of Honour, in cui Miike si sofferma più del solito sul rapporto, seppur deviato, tra uomo e donna.

Come negli altri yakuza-eiga sceneggiati da Takechi Shigenori, anche in Graveyard of Honour la rappresentazione grafica della violenza è assai contenuta, anche se tutto il film si sviluppa nel contesto di uno degli ambienti più violenti per antonomasia, quello della criminalità organizzata.

In questo modo, lo spettatore non rischia di farsi distrarre dall’aspetto visivo (come in Ichi the Killer, per esempio) ma focalizza la propria attenzione sulle vicende raccontate, lasciandosi trasportare dalla corrente oscura che pervade l’intera pellicola. La patina decadente che ricopre il film, dalle luci soft e dai colori spenti, è perfettamente funzionale alla vicenda, che ritrae una Yakuza giunta oramai al crepuscolo, dove ai gangster interessa rimanere saldamente ancorati alla poltrona del potere, senza rendersi conto del passare del tempo che li sta inesorabilmente tagliando fuori. Anche il ritmo del film non si può proprio definire velocissimo – anche rispetto al film di Fukasaku, decisamente più movimentato – e si ha l’impressione che il tempo scivoli lentamente verso il basso, accompagnando Rikuo verso il fondo dell’abisso.