Mob Sister

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mob sisterWong Ching-po sulle orme di Johnnie To? Per certi versi è questa l’idea che emerge dalla visione di Mob Sister e del precedente Jiang Hu (2004). Non è questo il momento di raccontare la genealogia dello sviluppo del nuovo noir hongkonghese, ma quello che era nato come tentativo eroico di reazione a basso budget dopo la crisi del 1997 è rapidamente assurto a nuovo genere simbolo del cinema locale con la produzione di film robusti, vendibili e esportabili (con una certa fortuna anche ai festival occidentali). Wong Ching-po (al momento dell'uscita di questo film) non è riuscito ancora a chiudere un prodotto compiuto e rigoroso ma le premesse per un futuro roseo ci sono. Un regista virtuosistico, spesso in possesso di soggetti intriganti, con budget adatti e cast di primo ordine. Cosa c’è che non va, allora? Forse una non sempre presente abilità nel raccontare, soffermandosi troppo sulle proprie suggestioni personali con uno stile che spesso ricorda quello di certo cinema coreano. Bisogna ammettere che i suoi film sono sempre impeccabili nella realizzazione e soprattutto Jiang Hu possedeva dei grandi momenti riusciti. In questo caso invece, dopo una prima parte assolutamente rigorosa (che può ricordare il The Mission di Johnnie To) il film inizia a muoversi in modo stanco senza argomentare adeguatamente le motivazioni sottese al testo che fanno avanzare lo sviluppo narrativo. Il film però fa fortunatamente parte di quella robusta fetta di cinema medio hongkonghese che pur all’interno di prodotti non riusciti riesce ad iniettare delle sequenze illuminanti capaci da sole di valere la visione. In questo caso tutta la parte di pre-finale è puro cinema all’ennesima potenza, un guizzo dadaista inaspettato che non può lasciare indifferente nessuno. Improvvisamente il film spalanca i cancelli ad una ”gang bang marziale automobilistica” magistrale, lunga e intensa, assolutamente inedita e impeccabile. Tutto il resto, pur se affogato in uno stile sensuale e virtuosistico, non riesce mai a coinvolgere. Uno dei demeriti va sicuramente alla scelta e gestione degli attori. Per primo, il più evidente, è l’ostinazione a voler far recitare Karena Lam (Koma, 2004) in ruoli assolutamente antitetici alla sua persona. Dopodiché presenti in loco troviamo Simon Yam (PTU, 2003) e Alex Fong (One Nite in Mongkok, 2004) tiepidissimi, un imbarazzato Yuen Wah (Kung Fu Hustle, 2004), Erik Tsang (Infernal Affairs, 2002), nel ruolo ormai sempre uguale a sé stesso e Anthony Wong (Untold Story, 1993) che assomiglia in modo imbarazzante a Carlo Verdone quando imita Furio (in Bianco, Rosso e Verdone). Paradossalmente l’unica ad uscirne illesa è l’esordiente Annie Liu, davvero brava e in ruolo. Aspettiamo Wong Ching-po alla prossima prova con grossa speranza che possa sorprenderci al più presto con un film intimista e completo, come ha fatto nel passato un regista come Wilson Yip.