Painted Skin

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painted skinFiglio delle co-produzioni tra diverse entità come un po’ tutti i film ad alto budget prodotti ormai in Asia, Painted Skin è basato sul racconto omonimo classico dell’autore Pu Songling, già portato sullo schermo nel 1993 da King Hu.
Elemento ancora più sorprendente sono le varie tag che hanno lanciato il film, presenti anche nel sito web ufficiale ovvero “the first eastern supernatural movie from China”; in effetti il cinema mainlander ha solitamente tenuto lontani i temi sovrannaturali e il sesso, elementi ostici al governo centrale, una sorta di caccia alle streghe che aveva subito una drastica impennata nel periodo immediatamente precedente le olimpiadi (v. il boicottaggio di Lost in Beijing). Ora, come preventivato, la censura sembra essersi di nuovo allentata e di fianco ad un horror come Deserted Inn ecco uscire un blockbuster (uscito a settembre in Cina su 1100 schermi) fantasy puro e duro.
Ed è una sorpresa perché se da un lato il film ha un’evidente patina export, con un ritmo molto “occidentale”, dall’altra non indietreggia di un centimetro di fronte ad una concezione del fantasy tipicamente locale e sprofondata in un contesto cinese. Un film per ragazzi quindi, ma né arrogante (come mediamente i film hollywoodiani), né pusillanime (come i wuxia export di Yimou), con dei buoni giochi di wirework come non si vedevano da anni ma al contempo personali e inventivi come una volta, un candore infantile, un cast straordinario e un 3D tenuto parzialmente a freno impedendogli miracolosamente di mangiarsi tutta la magia.
Di nuovo si parla di horror, di fantasy, ma sempre virato in matrice romantica, storie di re, studenti, monaci e creature del folklore, avventure di amore romantico in cui il sovrannaturale è svolta narrativa e ostacolo/innesco del conflitto. “Questo matrimonio non s’ha da fare”, certo, ma la tensione al caos è trascinata da creature del buio sferzate perennemente da crisi introspettive e divise tra amore e morte. Una strada vicina e parallela d’altronde a quella di Storia di Fantasmi Cinesi, non così casualmente ispirato ad un altro racconto dello stesso autore letterario ispiratore di questo film.

Pang Yong (Donnie Yen) è un combattente invincibile che nel corso di una estenuante battaglia diserta e si ritira a vita privata. Suo fratello, il generale Wang Sheng (Aloys Chen) salva una donna, Xiao Wei  (Zhou Xun)  prigioniera dei nemici e la ospita nella sua casa innamorandosene a spese della moglie Pei Rong (Zhao Wei) che vede spegnersi lentamente il proprio universo idilliaco che la vita le aveva riservato. Intanto nella città sempre più uomini vengono trovati morti e privati del cuore. Si inizia a sospettare della presenza di un demone nella casa reale, mentre Pang Yong incontra una burbera cacciatrice di spettri (Betty Sun) pronta all’azione.

Un’ottima prova le coreografie di un ritrovato Stephen Tung Wei che dimostra che quando il budget c’è, e l’inventiva anche, si può ancora utilizzare il wirework con argomentazioni forti e risultati incoraggianti. Sue le coreografie di decine di film ma la dimostrazione del suo eclettismo sta nel fatto che dopo Seven Swords si era adattato allo stile ormai codificato di realismo terreno; con questo film ritorna al passato e mostra di sapersi rinnovare come ha sempre fatto, opzione che –duole dirlo- non è avvenuta ad un coreografo più noto e –perché no- precedentemente più talentuoso come Ching Siu-tung.
I raffinati giochi fotografici di Arthur Wong donano –anche questi- una patina nuova e personale al film così come la regia di un ritrovato veterano come Gordon Chan, pulita e basilare ma capace a tratti di fare percepire anche in uno spettatore abituato un briciolo di vento di vitalità e novità.  Un  piccolo sollievo e speriamo una grossa speranza per un futuro grande cinema cinese.