Raging Fire

Voto dell'autore: 4/5

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Durante i titoli di coda scorrono le immagini del backstage del film in cui Benny Chan dirige un prodotto ambizioso e all’altezza del proprio talento. Regista che prende atto della malattia durante le riprese, le porta a termine, si sfila dalla post produzione e offre tristemente un film postumo.

Ed è un peccato perché Chan, debutto folgorante con un classico come A Moment of Romance, alcuni titoli incisivi del post new wave, altri film confusi e in cerca di una direzione nel post landover, aveva trovato una strada finalmente consolidata. Con The White Storm aveva rimesso in piedi le basi dell’heroic bloodshed del passato con un prodotto assolutamente di maniera ma con la robustezza e una chiara visione del presente, caso più unico che raro. E Raging Fire prosegue questo percorso donando al film una maggiore personalità, svincolandolo parzialmente dal pesante fardello del passato e offrendo una nuova visione e personalità per il genere.

Raging Fire offre un nuovo modello di noir/action urbano hongkonghese aperto al mercato della Cina continentale, mantenendo però polso e un certo equilibrio.

Non si trattiene nella violenza, filosofeggia sulla figura della polizia senza fornircene necessariamente una visione conciliante, abbonda di azione sfruttando gli effetti digitali ma mantenendo un senso di realismo discreto ed efficace. Lo fa con un budget dignitoso e con una troupe affiatata: 3 sceneggiatori, due produttori (lo stesso Chan e Donnie Yen (Ip Man) che recita e coreografa) e un buon team dedicato alle ottime sequenze automobilistiche.

Parte in sordina, anticipa una mezz’ora che è la parte meno interessante del film e poi tira dritto senza respiro fino alla fine. E’ un titolo costruito e sceneggiato con una discreta cura, ma che riflette anche sull’azione spesso con invenzioni e trovate sorprendenti e innovative. E’ sempre in quella prima mezz’ora che il personaggio del villain, interpretato da Nicholas Tse, funziona meno, in preda a smorfie traumatiche fuori registro; ma nella seconda rientra nei ranghi e anche lui offre un’ottima performance -anche marziale- degna compagna dell’acclarato talento ginnico di Yen.

Un ottimo testamento filmico per un regista, tra i pochi, che era stato capace di aggiornare e rendere attuale un genere di Hong Kong dimenticato, abbandonato, irripetibile, e dargli nobiltà e dignità in un presente di crisi e di eccessiva competizione internazionale.