Il Gigante dell'Himalaya

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The Mighty Peking ManIl Gigante dell'Himalaya (The Mighty Peking Man), ovvero King Kong in Hong Kong.
Nel 1976 De Laurentiis decide di produrre un remake del King Kong del 1933, evento allettante per tutte le cinematografie minori ai fini della messa in cantiere di un film simile dal guadagno facile e dalla pubblicità ancora più facile. La casa di produzione giapponese Toho aveva già portato sullo schermo la creatura più volte, confondendola nell’universo godzillesco dei propri kaiju monster ma in quel periodo la serie era stata interrotta e sarebbero passati 9 anni prima che un nuovo film e una nuova serie di Godzilla avessero di nuovo visto la luce. Fuori i grandi dal gioco, il tutto era quindi fin troppo facile, e ad approfittarne celermente furono i coreani con il film A*P*E (Paul Leder, 1976) e gli hongkonghesi con Il Gigante dell'Himalaya. Il film in questione è praticamente mimetico all’originale statunitense.

La notizia su un quotidiano locale del ritrovamento di un’ impronta gigante in una zona remota dell’Himalaya, stuzzica il palato avido di un losco faccendiere (Ku Feng) che prontamente organizza una spedizione in loco assoldando come aiutante un ragazzo ormai alcolizzato (un giovane Danny Lee), scosso da un trauma sentimentale. Troveranno nel mezzo della giungla la gigantesca scimmia e una bionda amazzone (Evelyn Kraft, attrice ungherese che abbandonerà presto la carriera) dai “vestiti” decisamente succinti, reduce da un incidente aereo in cui hanno perso la vita i genitori e che l’ha resa a tutti gli effetti la she-Tarzan della foresta. La bella e la bestia sono portate a Hong Kong per i classici scopi speculativi, la creatura viene rinchiusa nell’Hong Kong Stadium ma non tarderà ad evadere per difendere la sua bella da un tentativo di stupro, trasformando la tranche successiva del film in un’opera catastrofica sullo stile del Godzilla nipponico. Come nel modello originale non può mancare la arrampicata sul grattacielo ma stavolta non tocca né all’Empire State Building, né alle Twin Towers; essendo a Hong Kong la creatura si rintana sulla sommità del Jardine House, pittoresco grattacielo dalle finestre ad oblò costruito pochi anni prima. L’arrivo degli elicotteri e la deflagrazione della sommità del palazzo condurranno il film verso il prevedibile finale.

E’ abbastanza incomprensibile il perchè questo film abbia folgorato il regista Quentin Tarantino tanto da fargli curare personalmente la distribuzione in video negli USA tramite la propria etichetta (la Rolling Thunder Pictures).
Prodotto in pompa magna nientemeno che dalla Shaw Brothers, una delle più importanti e storiche case di produzione dell’ex colonia, diretto da uno dei suoi nomi di punta, Ho Meng-hua (memorabile la sua serie di film tratti dal romanzo Viaggio in Occidente), il film non può che essere apprezzato come divertissement monoplegico, picco di follia stracult. Nonostante l’evidente sforzo produttivo, gli effetti speciali sono quasi inguardabili; se sono apprezzabili le miniature e i modellini della città, i mezzi militari sembrano appena usciti da un negozio di giocattoli, la creatura è una brutta tuta in peluche dotata di un’animazione facciale prognata minimale, dei continui fastidiosissimi intarsi di compositing lasciano allibiti nella loro finzione e fin troppe volte sequenze di immagini vengono accelerate per dare ritmo e dinamicità a riprese troppo statiche con esiti non propriamente riusciti.
A livello di sviluppo il film sembra preoccuparsi più di voler mostrare le derive (s)exploitation e gore più che seguire una narrazione coerente; numerosi personaggi vengono inseriti in modo sbrigativo solo per tramutarsi in carne da macello nei continui attacchi di animali feroci e della creatura gigante, mentre tutte le fantasie evocate dalle grazie della bionda amazzone saranno più o meno appagate.
In questo il film è più coraggioso e personale dell’originale, decisamente più crudele, mostrando amputazioni, scenette splatter, pudichi nudi vaghi, uno stupro, alcune eteree scene di sesso, e la stessa creatura che cade dal palazzo avvolta dalle fiamme.
Probabilmente la parte più riuscita è quella finale, decisamente suggestiva nel mettere in scena il catastrofico passeggio del gorilla gigante per le vie di Central District.
Questa sequenza ha anche un breve valore aggiunto sociale. Mentre la creatura passa di fronte ai palazzi, lo spettatore ha la possibilità di scorgere dietro le finestre frammenti di vita delle famiglie della città colte nella propria quotidianità; c’è chi scopa, chi vive ammassato in otto persone in una stanza minuscola, chi gioca a Mahjong e prima di fuggire si preoccupa di riprendersi i soldi abbandonati sul tavolo da gioco.
Dettagli che non bastano a salvare un film dotato di troppe di quelle sequenze che fanno impazzire gli appassionati del “guilty pleasure”; mentre i due amanti copulano, vengono spiati dal gorilla-guardone attraverso l’ingresso della caverna e quando finalmente si sono amati, li vediamo correre per la giungla, in silouette contro il sole, con sottofondo di musica da Ikea, per poi giocare sornioni con gli animali feroci.
La ragazza viene poi morsa all’interno coscia necessitando una logica operazione di risucchio del veleno da parte del ragazzo. E che dire dell’amazzone che se ne va in giro per Hong Kong praticamente nuda, scroccando passaggi automobilistici senza minime reazioni di meraviglia della popolazione locale?
Apparentemente del film esistono più versioni leggermente diverse le une dalle altre, più o meno pudiche e con un finale diverso.

 

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Recensione parzialmente plasmata su un articolo firmato dallo stesso autore e originariamente pubblicato su Nocturno Dossier n. 42

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