The Sky Crawlers - I Cavalieri del Cielo

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In un tempo indecifrabile e in un’Europa fuori dalla geografia, sita a metà tra il bucolico di Porco Rosso di Miyazaki e lo steampunk dello Steamboy di Otomo galleggia placida in un assordante immobilismo una metafora del presente di rara finezza ed efficacia.

Nulla accade, nulla si muove, tutto si crea, tutto si distrugge e tutto muta in ciclici corsi e ricorsi storici. Una base, un comandante, dei piloti, un meccanico, un cane. La partenza quotidiana per battersi di giorno in giorno contro un nemico in luttuosi scontri aerei. Nessuno conosce il nemico né i motivi della lotta. Ma c’è e deve esserci. Atteggiamento condiviso –supponiamo- dall’altra parte del conflitto. Sembra quasi di trovarsi in una versione animata de Il Deserto dei Tartari di Buzzati. Il popolo distratto butta un occhio a quello che accade, sbirciando la televisione, celebrando i propri eroi per contratto più che per consapevolezza. Le strade delle città sono deserte, i locali chiudono presto e il popolo ha smesso di “vivere”, chiuso nel suo ruolo, e barricato in casa, ridotto ad inconsapevole ingranaggio, teso da una continua guerra che gli produce un “nemico” a cui aggrapparsi e su cui convogliare rancori e degli eroi da votare e supportare che gli infondono una sfuggente sicurezza.
Unica nota perturbante sono i protagonisti piloti, cosiddetti Kildren, sorta di bambini incapaci di crescere, privi di futuro, di ricordi e di passato, generati per questo scopo e vincolati a questa vita. Sorta di macchine atte all’apprendimento di abilità da tramandare “chirurgicamente” nei successivi colleghi che prenderanno il loro posto.

Avevamo lasciato Oshii al delirante e complesso Amazing Lives of the Fast Food Grifters, ottima prova di scrittura e di narrazione ardita e storica, fusa a inusitate invenzioni tecniche. Ritorniamo qui ai livelli di un Avalon permeato dalle farneticazioni filosofiche dell’Innocence (Ghost in the Shell II).
Tratto da un noto romanzo di Hiroshi Mori, il film si rivela innegabilmente come una delle riflessioni belliche più interessanti e riuscite dell’ultimo ventennio, senza dubbio. L’approccio del regista è però inusuale e se narrativamente è senz’altro degno di nota nel suo coraggio propositivo, l’estremo immobilismo e l’ode ad un classicismo ovattato e contemplativo non favorisce di certo una piacevole visione. Mettendo da parte quasi totalmente le gesta eroiche e le sequenze action aeree (stupende oltretutto), Oshii si fissa sul materiale “umano” e sull’asfissia silente e pre mortem della specie umana. Il risultato è di una lentezza paranoica, quasi insopportabile, che unita alle fredde sequenze di sesso e all’alone funereo diffuso ne convogliano l’interesse in un pubblico fortemente selezionato.
Discutibili le scelte tecniche, di nuovo un’alternanza tra fondali dipinti di straordinaria credibilità e cura dei dettagli, delle animazioni classiche poco incisive nei totali e un abuso di 3D che raramente interagisce in maniera convincente con le altre due componenti.
Cinema, finanche grande cinema, che pretende una inusitata attenzione ma che ripaga con uno spessore e una forza emotiva oggigiorno sempre più rara.
Indimenticabile.