White Slavery

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“È per il tuo bene, Joy. Tutti noi abbiamo bisogno di soldi, non si può essere schizzinosi nel lavoro.”

White Slavery racconta un periodo particolare nella storia delle Filippine: l’epoca del presidente Marcos, tempi di corruzione/povertà diffusa nei quali la sopravvivenza personale e famigliare può essere collegata a persone vili, di bassa o inesistente moralità. Come la signora Antiporda, pregevolmente interpretata da Tita De Villa, incarnazione del male nel film nonché nemesi delle tre protagoniste: Joy (Sarsi Emmanuelle), Pinang (Emily Loren) e Linet (Jaclyn Jose), tre giovanissime ma ingenue e sfortunate ragazze che, per necessità, finiscono nelle grinfie della “magnaccia” e dei suoi collaboratori. Scagnozzi senza scrupoli che, con droghe e violenza, tengono in pugno innocenti vittime e ne profanano le carni.

Alle protagoniste non resta che la sottomissione: l’evoluzione dei singoli ma sventurati personaggi principali femminili rende Joy disposta a perdere la dignità e il rispetto di sé pur di massimizzare i profitti, consigliata dal partner Allan (Ricky Davao);  rende la fragile Linet schiava della paura fino alla fine e incapace di mantenere le promesse che lei stessa fa alla famiglia; mentre non fa scomparire la combattività in Pinang che, insieme al fidanzato Rodel (Patrick Dela Rosa), sarà l’artefice degli eventi finali.

White Slavery non è un exploitation e, in fondo, nemmeno un “poverty porn”, ma un dramma inserito in un’epoca storica dove la recessione economica e la corruzione diffusa furono le cause che portarono il 59 % della popolazione a oltrepassare la soglia di povertà con conseguenze disastrose, tra cui malnutrizione, alto tasso di disoccupazione e impossibilità a trovare impiego.

Il film ritrae, quindi, una società e personaggi allo sbando, in balia di un’impietosa e violenta condizione economica che porta i vili, i cattivi a esercitare a loro volta violenza contro i più indifesi  per guadagno personale. Personaggi maschili che, purtroppo, sono confinati al ruolo di macchiette, quello che mancano in grinta, lo recuperano in disinteresse e dialoghi cliché.

Fortunatamente, le attrici offrono al pubblico delle lodevoli interpretazioni, tra cui spicca Linet, interpretata da Jaclyn Jose, miglior attrice protagonista a Cannes per Ma’ Rosa e deceduta nel marzo 2024. Le capacità recitative, l’abilità del regista di manipolare la cinepresa soffocando il pubblico, restringendo ancor di più gli spazi al punto di una claustrofobia visiva e un uso della colonna sonora interconnesso con la storia (come per esempio Material Girl che ben incarna l’evoluzione del personaggio di Joy) sono i punti di forza del film al pari delle due scene madri, realisticamente girate come quella terribile dell’aborto coatto.

White Slavery è riconosciuta come un’opera minore di Lino Brocka che riprende il tema dell’emigrazione dalle zone rurali alla città, come già visto nel capolavoro Manila in the Claws of Light ma senza i toni eccessivamente cupi e nichilisti del predecessore, quasi a volere costruire un finale che dia speranza al pubblico.