Siblings of the Cape

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Il cinema giapponese sta vivendo un periodo inusuale, probabilmente non particolarmente fortunato.

Certo, c'è un'industria vivace e attiva, che continua a poggiare su nomi ormai appurati ma che sono in una fase di carriera ovviamente meno stimolante (Kurosawa, Toyoda, Miiike...), o che sono meno prolifici (Kitano), o che non girano proprio più (Hitoshi Matsumoto) o che ci hanno lasciato prematuramente (Satoshi Kon).

Forse proprio dal campo dell'animazione arrivano i prodotti e i nomi migliori che danno continuità alla qualità cinematografica del paese. Il problema è nel ricambio e nelle nuove leve. Perché in questo cinema attualmente molto avaro di immaginari innovativi, ogni anno escono dei titoli folgoranti o dei nomi promettenti.

Il più delle volte, piccoli film indipendenti, nomi che ci appuntiamo nell'attesa delle prove successive. Ma sempre più spesso non arriva un degno seguito, non c'è un percorso coerente e personale, non c'è una continuità artistica. Solitamente il primo film è opera nichilista e politica e quelle successiva l'ennesima riduzione di un manga di successo o di una serie animata, azione che mediamente azzera ogni impronta autoriale in virtù di una resa maniacalmente fedele all'origine. Uno degli ultimi nomi ad aver seguito questo nefasto percorso è quello di Mari Asato, talentuosa regista che ci aveva incuriosito con il suo bel Bilocation e si era lentamente annacquata fino ad arrivare a un titolo come Hyouka: Forbidden Secrets. Tra i pochi nomi che stanno mostrando un briciolo di coerenza e di piglio autoriale c'è sicuramente il nome di Kazuya Shiraishi (One Night). Ma intorno, tanta incertezza.

Ed arriviamo a questo Siblings of the Cape che è proprio uno di questi piccoli film indipendenti intimi e traumatizzanti che di tanto in tanto sferzano il furore pop della cultura locale. Titolo che si affianca ad altri colleghi che tentano di farsi largo nel soffocante cinema giapponese del presente come Himeanole, Destruction Babies, The Scythian Lamb, River's Edge, Liverleaf e qualche altro.

Siblings of the Cape si erge tra i più nichilisti del mucchio; questa volta non per motivi grafici basati sulla violenza, ma per il contesto generale di degrado e assenza di redenzione. E di base il film potrebbe apparire un oggetto d'autore pregno di poesia, sulla falsariga dell'ottimo coreano Oasis di Lee Chang-dong. Lo è anche, tecnicamente, perché avvicenda invenzioni, grandi partiture di regia e delle ellissi decisamente sopra la media. Ma il livello di annientamento e di mercificazione sessuale annega l'opera in un denso mare nero; sequenze di sesso ai limiti dell'esplicito, nudi integrali, moralità attualmente discutibile.

Un uomo zoppo interpretato da Yuya Matsuura (Rolling (2015)) vive in una baracca con la sorella (Misa Wada, che interpretava una wrestler nel The Chrysanthemum and the Guillotine (2018) di Zeze Takahisa) che ha una disabilità mentale (che si riflette parzialmente anche nel fisico) e una attitudine agli “eccessi” sessuali. La perdita del lavoro del primo riduce alla fame i due, nella baracca dove vivono viene tagliata la luce e la coppia è costretta a cercare nella spazzatura per poter sopravvivere e mangiare. Di tanto in tanto la sorella “scompare” allarmando il fratello che arriva ad incatenarla quando è assente da "casa". Durante l'ennesima fuga viene riportata a casa da un individuo che ha abusato sessualmente di lei, pagandola. Questo inaspettato introito porta l'uomo ad introdurre la ragazza nel mondo della prostituzione. Il viaggio verso l'autodistruzione si muoverà tra momenti agrodolci pop e sezioni mostruosamente viscerali e sconvolgenti; scontri con barboni e con la yakuza, sesso con nani e anziani, duelli a colpi di escrementi, tendenza al suicidio e all'omicidio. Detta così può sembrare divertente ma non lo è affatto.  Il paese è diviso in due e non c'è via di fuga per gli sconfitti.

Il regista Shinzo Katayama (che scrive, produce, dirige e monta) è al suo esordio ma aveva già lavorato come assistente alla regia per nomi del calibro di Bong Joon-ho (su Tokyo! (2008) e Mother (2009)) e Nobuhiro Yamashita (su My Back Page (2011) e The Drudgery Train (2012)). Gira il film in quattro stagioni, da febbraio 2016 a marzo 2017, dividendo la sceneggiatura in quattro parti e celando alla crew (e a sé stesso in realtà) il successivo proseguo della storia nella stagione seguente, infondendo al film un senso di tesa sospensione.

Opera straordinaria, come tutti i titoli citati sopra è stato mediamente ignorato, se non dal pubblico, da chi di dovere, soprattutto la critica e i Festival che hanno perso un'occasione di scoperta macroscopica. In Italia ha avuto visibilità grazie al Festival EstAsia di Reggio Emilia 2021.