Dr. Lamb

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Lam (Simon Yam) sembra essere un tranquillo ed onesto tassista. In realtà è un serial killer dall’inquietante modus operandi: assale le giovani ragazze che salgono nel suo taxi per poterle uccidere, fare del sesso con i loro cadaveri ed infine fotografarne i resti. Alle sue costole però c’è tutta la determinazione dell’ispettore Lee (Danny Lee).

Dr. Lamb è stata la prima vera gallina dalle uova d’oro del più scorretto cinema di Hong Kong dei primi anni ’90. Il film “di” Danny Lee, puntando tutto sul sensazionalismo più bieco, non si è limitato a determinare le regole strutturali della maggior parte dei Cat. III a venire (su tutte, la sceneggiatura composta da numerosi flashback e l’idea di fondo tratta da un fatto di cronaca realmente accaduto) ma è stata anche l’opera che ha permesso al regista di produrre, partendo dalle stesse basi e perfezionandole, il capolavoro The Untold Story (la regia del film è solitamente accreditata allo stesso produttore e attore Danny Lee, anche se -a quanto pare- il regista “reale” è Billy Tang, all’epoca meno noto e quindi accreditato solo come “executive director”, N. d. R.).

Un successo ancor più curioso ed inaspettato se si considera la sua natura di remake: solo l’anno precedente, infatti, usciva nelle sale Hong Kong Criminal Archives – Female Butcher (a quanto pare sembra si tratti di un film per la tv in video, N. d. R.) basato sulla stessa serie di omicidi e con protagonista nuovamente Simon Yam.

Difficile cercare di capire quali siano i motivi che hanno portato solo il secondo dei due film ad ottenere tale successo, ma una lode al protagonista è comunque d’obbligo considerata la mole inaudita di perversioni ed eccessi che l’attore si presta a portare su schermo.

I pregi di Dr. Lamb si fermano a questo: del resto il film è praticamente privo di un qualsivoglia snodo interessante nella sceneggiatura ed è quasi totalmente scevro di suspence. Il colpevole viene arrestato dopo soli pochi minuti e l’unico motivo di interesse nel proseguirne la visione rimane la morbosa catalogazione di ogni brutalità commessa dall’assassino, dal semplice voyeurismo all’atto estremo della necrofilia.

Simon Yam, con il suo sguardo allucinato e la sua figura all’apparenza docile, financo di bell’aspetto, si trasforma per la prima volta nel mostro della porta accanto, quella stessa angosciante figura che riproporrà innumerevoli volte in seguito fino a farla diventare il suo marchio di fabbrica: così facendo si trasfigura totalmente nel suo personaggio, “prestandogli il suo corpo, la sua impassibilità, la sua ferocia silenziosa e la sua arroganza latina decaduta” (1).

Oltre alla bravura del protagonista – che in seguito dichiarerà di essere stato costretto dalle triadi a interpretare molti ruoli dei quali avrebbe volentieri fatto a meno, compreso molto probabilmente questo – va comunque segnalata la visione cinica e pragmatica del “regista” Danny Lee, che spinge il più possibile il piede sul pedale del realismo lasciandosi andare solo a qualche squallido (ma pienamente e grottescamente in linea con tutto il resto) siparietto demenziale.

E anche la caratterizzazione delle forze dell’ordine, dipinte come violente ed intransigenti fino al punto di malmenare e torturare il colpevole, diventerà a sua volta uno dei punti fermi del “procedural” Cat. III. Non riuscito come alcuni dei suoi epigoni successivi, forse, ma per molti motivi resta un film di importanza seminale.

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 (1) Giona A. Nazzaro e Andrea Tagliacozzo, Il Cinema di Hong Kong – Spade, kung fu, pistole, fantasmi, Italia, Ed. Le Mani, 1997, p. 225