Unholy Women

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Unholy WomenProprio quando ormai dell’horror asiatico non se ne parla quasi più, vale la pena tornarci sopra. Sarà che la moda (perchè all’80% di moda si è trattato) è ormai passata, e sarà che chi lo ama davvero ci ha ormai fatto il callo, comunque in Asia continuano ad essere realizzati ottimi prodotti del genere con una continuità e spesso una qualità per nulla mutate. Certo, è evidente una lieve flessione in ribasso, ma che quotidianamente si deve scontrare con un universo ormai deflagrato e con un interesse di pubblico forse meno recettivo di prima, soprattutto fuori dal Giappone. Unholy Women è una raccolta di tre episodi a tematica fissa (la donna) che fa in maniera ottima il proprio dovere. Il primo e il terzo troncone lavorano su materiali classici,  mentre la zona centrale utilizza strumenti più o meno inediti. Tutti i tre vanno a toccare temi ormai noti e collaudati; lo yurei, l’amore e la maternità e i vincoli di sangue.

Rattle Rattle (Kata Kata), questo il titolo della prima sezione, è una classica storia di fantasmi femminili. A fare la differenza è che i materiali sono scomposti e si trasformano in un estenuante e funambolico gioco ludico e incontrollato di Amemiya Keita, uomo dotato di mano sicura, che riesce a procurare una continua scarica di puro terrore con manufatti ormai noti, frammisti a invenzioni, un 3D artificioso (reduce del suo Garo?) e una rivelazione finale tanto geniale quanto folle. Un vorticoso e frenetico luna park degli orrori.

Il secondo episodio, Steel (Hagane), mostra un timido operaio che lavora in un’officina meccanica ricevere dal suo capo l’incarico di portare in giro la sorella; il ragazzo sarà turbato da questo sensuale incontro visto che la creatura che si troverà di fronte è composta da cosce e curve mozzafiato strizzate in tacchi a spillo e minigonna inguinale, mentre la parte superiore del corpo e rinchiusa in un gonfio sacco di tela. Una creatura vorace, sensuale, masochista e violenta. Il collega di Asian Feast, Valerio Spisani ha fatto notare verosimili somiglianze con il Jenifer di Dario Argento, episodio televisivo della serie Masters of Horror. Il racconto si muove su tinte surreali e paranoiche e riesce realmente a turbare.

Il finale è dato in pasto a The Inheritance (Uketsugumono) e gode della supervisione di Shimizu Takashi (Ju-On, The Grudge); il risultato è la storia più “banale” non in quanto tale, ma in originalità narrativa, raccontando di una maledizione generazionale e del labile rapporto tra madre e figlio. Ritmo e forma sono quelli propri del grande J-horror classico ma la scarsa originalità lo rallenta rispetto alla vivacità dei due episodi precedenti.

Un buon lavoro indipendente per godere ancora di sani attimi di terrore e di libertà narrative inusitate.