K.G.F: Chapter 1

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L’India sta vivendo quel momento storico, simile a quello di altre cinematografie nel tempo, in cui i budget aumentano, gli incassi anche e il cinema si fa più maturo, guadagnando una rilevanza di livello.

K.G.F: Chapter 1, e soprattutto il suo sequel, si inseriscono quindi a fianco di titoli come Pushpa o quelli di S. S. Rajamouli, usciti in una manciata scarsa di anni e finiti (K.G.F: Chapter 2, RRR e Baahubali 2) nella top 5 dei maggiori incassi della storia in patria, affiancati da altri titoli “simili” di pari rilevanza (si pensi al furibondo 2.0).

K.G.F: Chapter 1 può apparire narrativamente meno inventivo rispetto agli altri citati, nel raccontare l’ascesa di un super criminale violento ma dal cuore d’oro; ma di affermazione affrettata si tratta. Certo, lo schema è risaputo, ormai un cliché, ma sviluppato con inventiva e piglio personale di una certa entità. Se rispetto agli altri titoli citati, quindi, il film può apparire meno inventivo, non lo è nel campo dell’azione. In questo caso magari è poco sensato un confronto qualitativo; forse K. G. F. è meno imponente ed eccessivo ma dalla sua ha una maggiore sperimentazione.

E qui torniamo ai paragoni con il cinema di Hong Kong del periodo d’oro che “filosoficamente” sembra essersi trasferito “qua”. Nel cinema di Hong Kong, la mano di uno o più coreografi garantiva una continuità stilistica dei duelli. Nei titoli indiani citati invece di volta in volta sembra che ogni sequenza d’azione segua direttive e dinamiche personali e disgiunte dal resto e dalle altre sequenze simili. A conferma di come i legami con il cinema di Hong Kong non siano del tutto arbitrari giunge una sequenza ambientata in una miniera in cui la luce d’ambiente si spegne e il tutto viene mostrato solo attraverso radi flash che squarciano il buio. Esattamente come in una scena dell’esordio wuxia di Johnnie To, The Enigmatic Case (1980), piena new wave di Hong Kong.

Certo in questi casi l’abuso di effetti digitali ha sostituito quello di trampolini, cavi e artifizi geniali codificati all’epoca ma il fatto che con le medesime risorse il cinema dell’ex colonia inglese non sia riuscito a rinnovarsi in questa direzione rema a favore della teoria del nuovo cinema d’azione indiano. E la scusa della presunta censura cinese regge poco; addirittura K. G. F. ha disclaimer in ogni singola inquadratura “discutibile” ma tecnicamente e stilisticamente è su livelli decisamente alti e quelli vengono dettati dal talento e nient’altro. Che di rado emerge ancora, comunque, anche all’interno del cinema di Hong Kong.

L’epica scorre a fiumi, l’impianto visivo “pittorico” è magniloquente, la musica invasiva e le sequenze di duello spesso dolorose e entusiasmanti (come tutte quelle con la pala). Si muovono come spesso accade su una partitura verosimile, ma “anabolizzata” con piglio di eccessi di gravità e di impatto fisico. Il risultato è una nuova scuola di particolare interesse per ogni cinefilo.

Di impianto leggermente più accessibile per un pubblico occidentale, grazie anche ad una presenza musicale e di danza esilissima, il film deve sicuramente parte della sua efficacia ad un cast convincente e carismatico sui cui svetta la presenza strabordante del protagonista Raja Rocky Krishnappa Bairya interpretato dall’attore Yash, ennesima figura maschile inusuale, affascinante e lontana dai globalizzati canoni estetici cinematografici del resto del mondo.

Maggior incasso della storia per un film in lingua kannada è stato poi macroscopicamente superato dal suo sequel che al momento dell’uscita è diventato il terzo incasso della storia in India.