25° Far East Film Festival


(21 aprile – 29 aprile 2023)

Dopo la memorabile ventitreesima edizione del 2021, il Far East Film Festival di Udine si è pian piano riposizionato nei canoni classici tipici dell’evento.

E quindi un florilegio di titoli medi, esilissimi, popolari sono andati ad affollare il palinsesto, rivelando ormai il Festival udinese come un vero e proprio format; format che non ha più bisogno, non vuole o non è più rappresentanza speculare di quello che accade all’interno del cinema asiatico -o almeno non solo- ma un contenitore coerente e codificato dettato da leggi e regole ricorrenti e da un legame di fiducia con le aspettative dello spettatore. E’ quindi un Festival che più di sempre cerca di scoprire nuovi nomi, accompagnare la carriera dei vecchi, costruire dal nulla immaginari e miti (ne è una prova l’inspiegabile calore, anche da parte del publico, nei confronti del cinema di Watanabe Hirobumi grazie al quale, di rimbalzo, sta godendo di fama nazionale).

Il target di riferimento sembra essere quindi un pubblico generico italiano che non conosce il cinema asiatico ma mosso da curiosità è disposto ad accettare e testare qualunque cosa, senza possedere nessuno strumento interpretativo di riferimento. Se ne ha l’impressione “origliando” i commenti generici dei vicini di poltrona a fine proiezione e i primi due discutibili titoli votati per il premio del pubblico. Ma qui ci torneremo dopo. Certo, negli anni molte cose sono cambiate e basti osservare il grande pannello all’ingresso del Teatro Nuovo Giovanni da Udine (sede principale dell’evento) che riporta tutti i vincitori delle passate edizioni per appurarsene. Ma anche per riflettere su come sono mutati degli anni e nei decenni i gusti del pubblico.

E’ quindi mancato uno o più film totalmente folgoranti, uno di quelli che resteranno, che si posizioneranno tra le migliori visioni dell’anno, alcuni su cui fare una classifica qualitativa seppur parziale, un capolavoro sconvolgente, un titolo traumatizzante. In virtù però di un discreto numero di film di buona qualità e di pari livello e resa.

Quindi ben poco cinema d’autore, poco perturbante e un ritorno in massa di inoffensive operine agrodolci di qualità molto discutibile. Con le dovute eccezioni. Questa edizione è anche sembrata un po’ una grande festa del venticinquennale, con il ritorno di tanti amici, vecchi e nuovi, presenti con i loro ultimi film. Ma soprattutto il numero record di film in palinsesto (78) di cui un terzo rappresentato da grandi classici. E questo incarna un po’ l’inaspettata sorpresa che cambia tutte le carte in tavola. Sarebbe bastato vivere il Festival al Cinema Visionario (la sala “secondaria”), dove tali opere erano proposte, per respirare praticamente solo capolavori e altissimo cinema o -se nuovi della materia- scoprire un intero straordinario universo. Questa scelta ha rivelato, soprattutto ai più giovani, quanto stimolante e ricco sia il cinema dell’oriente; né più né meno le altre cinematografie, certo, ma l’occasione era ghiotta per acquisirlo in maniera diretta ed esplicita.

Intorno al cinema c’era un enorme, intero pacchetto di eventi che hanno ormai invaso pacificamente la città e non solo visto che con alcuni colleghi abbiamo potuto pregiarci anche di una stimolantissima visita guidata alle meraviglie della città di Cividale.

Ogni giorno, in orario di aperitivo, un dj set veniva allestito al di fuori del teatro. Di nuovo, per quanto piacevole, tematicamente non aveva nessuna attinenza musicale con il Festival, come la musica che accompagna l’evento all’interno e la maggior parte degli eventi musicali notturni. Tranne l’ultimo giorno in cui una band ha cantato e suonato con estremo piacere classici del mandopop raccogliendo grosso favore da parte del nutrito pubblico accorso. Ricordiamo di nuovo con nostalgia la già citata edizione 2021 quando all’interno della sala, per la prima (e ultima) volta, vennero diffusi brani asiatici.

Confermati come sempre book store, shop di dvd, fumetti e libri e molti gadget del Festival in più versioni. Presenti anche quest’anno dei punti ristoro “tipici” all’interno del teatro. Novità dell’anno erano le masterclass con alcuni maestri acclarati, anche se in Italia la parola “masterclass” sembra avere un significato abbastanza diverso da quello originario. Non solo a questo Festival.

Oltre le sezioni nazionali classiche votate ai film nuovi, con una corsa sfrenata alle anteprime anche internazionali e il numero macroscopico di ospiti (quasi ogni film era accompagnato da una rappresentanza per un totale di 200 figure) c’era quindi spazio per altre categorie e classificazioni. Ma partiamo dalle novità.

La Cina continentale, vincitrice assoluta della precedente edizione, viene di nuovo sottorappresentata con soli 4 titoli, al livello di una cinematografia “minore”, di cui tre su quattro posizionati in slot mattutine o da primo pomeriggio. Home Coming, Hidden Blade, il polpettone patinato di Cheng Er, l’inaspettato (e inspiegabile) Hachiko e il nuovo -interessantissimo- titolo di Zhang Yimou proposto come film di chiusura. Queste scelte, inspiegabili e che hanno mosso continui interrogativi tra gli appassionati e studiosi, tendono a fornire una visione distorta e distante dalla realtà delle dinamiche e del presente del cinema (non solo asiatico), in cui con alti e bassi -certo- problemi o meno, anche in virtù delle difficoltà del periodo di quarantena post Covid, il cinema cinese ha mosso passi e risultati unici e mai raggiunti da nessun paese nell’intera storia del cinema mondiale.

Hong Kong si muoveva invece con ben otto titoli, con l’apprezzato Lost Love, il nostalgico A Light Never Goes Out, un altro polpettone storico di un bravo regista (Where the Wind Blows) e l’attesissimo (da noi) Mad Fate, il nuovo film di Soi Cheang direttamente dal Festival di Berlino che non ci ha deluso. Il titolo è un oggetto stranissimo che guarda più al Detective vs Sleuths di Wai Ka-fai che al suo precedente Limbo. Presente anche The Sunny Side of the Street, uno di quei drammi sociali che ormai Anthony Wong gira a ciclo continuo e l’orribile A Guilty Conscience che però aveva motivo di esserci visto che è diventato a sorpresa il maggiore incasso della storia di Hong Kong.

Giusto per alimentare la polemica che tanto amiamo; i titoli di Hong Kong ci danno anche un “gancio” per riflettere sue due altre brutture, non solo locali: i titoli anglofoni dei film, spesso orribili, pomposi, solenni, talvolta “in prestito” da titoli di canzoni famose e l’utilizzo puerile e ridondante di tantissime colonne sonore usate da tappa buchi più che con una reale esigenza comunicativa dietro.

Due titoli indonesiani sotto l’egida di Joko Anwar, come regista per Satan’s Slave e produttore per Sri Asih, una nuova miracolosa buona regia della regista Upi che si cala nel secondo capitolo del Bumilangit Cinematic Universe, l’universo supereroistico locale di origine fumettistica dopo il primo titolo rappresentato da Gundala. E’ un buon film. Ma nel mentre in Indonesia è uscito anche il terzo capitolo, Virgo and the Sparklings; avrebbe fatto piacere poter vedere anche questo per motivi di completezza.

Otto titoli per il Giappone, che si muove ormai da anni in un positivo limbo di film medi, a volte meno riusciti a volte più, ma che tutto sommato riescono a proporre piccoli oggetti comunque interessanti. Ne citiamo alcuni come December, un dramma di carcere e vendetta con la splendida protagonista in sala, Ryo Matsuura, Phases of the Moon, tra i migliori in palinsesto, Techno Brothers, il nuovo di Watanabe e un altro film, Your Lovely Smile, in cui il nostro recita nei panni di sé stesso lasciando la regia ad un collega, Lim Kah Wai.

Due malesi: uno, Coast Guard Malaysia: Ops Helang, action, tra i peggiori in palinsesto mentre l’altro, l’ottimo Abang Adik, è risultato il vincitore assoluto dell’edizione portando a casa premi in ogni categoria.

Un titolo dalla Mongolia, ma molto apprezzato; The Sales Girl ha convinto il pubblico, forte anche della presenza in sala della deliziosa protagonista Bayarjargal Bayartsetseg.

Tre film dalle Filippine e come ogni anno tre grandi sorprese. Deleter è un horror perturbante molto più intelligente di quanto sembri, In My Mother’s Skin, horror fantasy storico, uno dei nostri preferiti in assoluto per quest’anno e Where is the Lie? di Quark Henares che è un oggetto strano e indecifrabile focalizzato sulla transfobia ma con una linea narrativa molto inusuale.

Singapore si presenta a Udine solo con il film di apertura, Ajoomma, commedia amara decisamente riuscita.

Da quel poco che abbiamo quindi menzionato è evidente come anche quest’anno le sorprese “maggiori” giungano dalle cinematografie “minori” capaci ancora di proporre originalità, inventiva, coraggio e libertà stilistica.

Sette film dalla Corea (del sud); come al solito produzioni impeccabili, ma come al solito i film meno interessanti del Festival. Quello che forse ne esce meglio è l’articolato thriller The Wild.

Sei film per Taiwan che invece rivela (e conferma) una qualità medio alta.  Si va dal buon thriller al femminile The Abandoned che per certi versi ci ha quasi ricordato Uomini che Odiano le Donne, al rozzo pulp in stile anni ’90 Bad Education, al delizioso Day Off, e al demenziale pop Marry My Dead Body.

Infine la Thailandia con un solo titolo, abbastanza “tipico”, You & Me & Me.

36 titoli fuori concorso, ospitati in numerose sottocategorie.

Johnnie without a Gun, tre film di Johnnie To fuori dai noir per omaggiare il regista e produttore di ritorno a Udine. Un tributo di tre titoli a Baisho Chieko, la diva del cinema giapponese che ha ricevuto il Gelso d’Oro alla carriera e che cantando sul palco ha regalato uno dei momenti più alti dell’edizione. Il film Plan 75 di cui è protagonista uscirà successivamente nelle sale italiane.

Special Screenings (4 titoli) alterna un altro, nuovo film di Hirobumi Watanabe (Way of Life), il nuovo di Miki Satoshi (Convenience Story) da un soggetto di Mark Schilling, un’altro film di Hiroki Ryuichi, l’ottimo You’ve Got a Friend e il discutibile catastrofico coreano Emergency Declaration.

Tre documentari di alterna qualità con nota di merito a AUM: the Cult at the End of the World.

Restauri. Quest’anno è toccato al capolavoro Nomad di Patrick Tam.

E poi, tre titoli a testa, due tributi: uno al regista coreano Jang Sun-woo e uno all’hongkonghese Po-Chih Leong.

Infine la grande retrospettiva (15 titoli) A/B Side Vibes. Greatest Hits From ‘80S & ‘90S. Dentro c’era di tutto e tutto a livelli altissimi.

Si andava dal classico dell’horror di Kiyoshi Kurosawa Cure, al fondamentale thailandese Dang Bireley’s and Young Gangsters passando per il film di chiusura di Hong Kong, A Moment of Romance, il delirio di Iwai Shunji Swallowtale Butterfly, il secondo film di Park Chan-wook e poi Hou Hsiao-hsien, Mario O’Hara, Hsu Hsiao-ming, Chito S. Rono e avanti di maestri e classici.

I premi del pubblico sono andati, come primo, a Abang Adik, decretando la prima vittoria Malese al Far East Film Festival. “Al secondo posto del podio si è invece piazzata la Corea del Sud con l’irresistibile Rebound di Chang Hang-jun, mentre il terzo posto è andato al Giappone con il toccante Yudo. Anche gli accreditati Black Dragon hanno incoronato Abang Adik, mentre i lettori di MYmovies hanno scelto la commedia mongola The Sales Girl di Janchivdorj Sengedorj. I giurati della sezione Opere Prime (Ho Wi-ding, Sydney Sibilia, Fred Tsui) hanno poi confermato l’entusiasmo generale per Abang Adik, assegnandogli il Gelso Bianco, con menzione speciale per il dramma hongkonghese Lost Love di Ka Sing-fung, mentre il Gelso per la Miglior Sceneggiatura è andato al dolcissimo Day Off della regista taiwanese Fu Tien-Yu (a decidere, alcuni dei giurati del Premio internazionale alla miglior sceneggiatura “Sergio Amidei” di Gorizia: Massimo Gaudioso, Marco Risi, Marco Pettenello, Francesco Munzi)”.

Esclusi i due premi del pubblico citati, prodotti medi, inoffensivi, e di cui resterà ben poco, tutti gli altri sono condivisibili e di livello, segno che in questo caso il pubblico ha mostrato una certa maturità di analisi e sensibilità.

I nostri preferiti, tra le novità, sono stati -non in ordine di preferenza- December, In My Mother’s Skin, The Sales Girl, Day Off, You’ve got a Friend, Phases of the Moon, Deleter, Mad Fate, Full River Red e in secondo luogo Ajoomma, Bad Education, Sri Asih, Abang Adik, AUM: the Cult at the End of the World. 

Asian Feast è stata presente per l’intero evento, guardando praticamente tutto, aggiornando in diretta i social con ogni news dal Festival, realizzando video riassuntivi giornalieri e pillole continue, scrivendo recensioni, rispondendo alle domande del pubblico fornendo consigli, muovendoci su quattro social oltre al sito, partecipando -invitati- a quattro dirette web e podcast per altri colleghi (v. sotto). 

Nell’attesa del 2024 quando festeggeremo il nostro ventennale.

Altro? Altro!

-Podcast su MIND CATHEDRAL

-Video intervista per NipPop Cinemaki

-Podcast CINEH

-Podcast Salotto Monogatari:
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